Storia di Franz e Loretta

In questi anni qui in Tedeschia, ho incontrato tante persone, ho ascoltato molte storie di cambiamenti, viaggi, amori, ma questa storia per me è speciale. Un uomo conosciuto per caso, mentre ero al ristorante con un’amica, in pieno centro a Monaco e in un giorno infrasettimanale. Quando l’universo ci si mette… E’ la storia di un tedesco, Franz, classe 1934 che negli anni del dopo guerra ha abitato a Novara, a poche centinaia di metri dalla casa dove i miei genitori (suoi coetanei) iniziarono a mettere su famiglia. Franz frequentava gli stessi negozi e balere, le stesse trattorie dove mangiavano i miei zii e i miei nonni. Ha persino imparato un po’ di dialetto novarese. Il perché il destino ci abbia fatti incontrare ancora non lo so, ma una cosa è certa: il mondo è davvero piccolo.

Condivido con voi la sua vita avventurosa, chissà che sia d’ispirazione per qualcuno.

E’ Franz che si racconta, in ottimo italiano, con mia grande sorpresa:

“Sono nato nel 1934 in un paesino sul lago di Stanberg a sud di Monaco. Sono figlio di una di quelle poche famiglie che riuscirono a non crollare nonostante la guerra avesse distrutto ogni cosa. Fin da bambino ho sognato di viaggiare. Volevo girare il mondo. Mi impegnai così tanto negli studi che riuscii a terminarli prestissimo. Al primo impiego ero un ragazzotto pronto a salire sulla giostra. Mi presentai senza alcuna esperienza al primo colloquio con una gigantesca azienda tedesca del settore petrol chimico. Firmai il contratto un’ora dopo aver dichiarato che viaggiare non sarebbe stato un problema per me, anzi non vedevo l’ora! Finiti i corsi di formazione presi il mio primo aereo, destinazione Giappone. Era la fine degli anni cinquanta e viaggiare in aereo era un vero e proprio lusso. Oltre al Giappone, rimasi anche diverso tempo in Australia, Spagna, Stati Uniti. Ma per le feste comandate tornavo sempre a casa.

Una Pasqua l’azienda mi comunicò “Abbiamo bisogno che tu vada agli uffici della Montecatini in Italia, dormirai a Novara. Ti daremo tutti i dettagli.” Tornando a casa lo comunicai subito ai miei genitori e fu un vero disastro. In Germania, in quegli anni c’erano i prime migliaia d’immigrati italiani che lavoravano nelle fabbriche, venivano chiamati Gastarbeiter. Per darti un’idea di come erano considerati gli italiani all’epoca, ti dico che la sera i dormitori degli operai venivano chiusi a chiave con gli italiani dentro. Si temeva per la vita delle donne tedesche. Venivano considerati come criminali. Incivili. Gente da cui stare alla larga. I miei genitori presero malissimo la notizia del mio incarico in Italia, al punto che mio padre pensò di chiamare in azienda. Ma io riuscii ad impormi. Li rassicurai che dopo il lavoro non mi sarei mosso dall’hotel, così non mi sarebbe successo nulla. Partii da Monaco per l’Italia come un soldato che va in guerra.

In realtà, appena arrivato a Novara, i miei colleghi della Montecatini mi fecero subito sentire a casa. Mi trattavano come se fossi cresciuto con loro.  Io oltre al tedesco, parlavo spagnolo e inglese, loro i colleghi, mi insegnarono tutto l’italiano che so, incluse le parolacce. Passavamo tanto tempo all’Angolo delle Ore, il ritrovo di tutti i novaresi. Un giorno vidi una bellissima ragazza entrare negli uffici dell’azienda. I miei colleghi mi dissero che era la figlia del direttore. Una volta non potevi far che presentarti. Andai da suo padre a chiedere il permesso di portare sua figlia alla Sala da té Bertani in corso Cavour. Il direttore mi diede il consenso, e il sabato pomeriggio eravamo a passeggio per il centro: io, lei e sua zia. Ad un tratto passò una ragazza molto affascinante e miei colleghi mi avevano insegnato che in Italia se incontri una bella ragazza devi farglielo sapere. Mi uscii di bocca uno spontaneo “Che bel culo!” La zia si arrabbiò moltissimo e non rividi mai più la nipote. Nei giorni successivi, cercai di spiegare al direttore che non sapevo che si trattasse di una volgarità, ma di un’usanza, volevo solo sembrare italiano per fare colpo su sua figlia. Ma non ci fu niente da fare. I miei colleghi per farsi perdonare mi portarono a mangiare pesce sul lago Maggiore. Ritornai diverse volte a Novara e Vercelli, se ripenso a quel Gorgonzola, e ai pomeriggi d’estate passati a guardare le mondine. Le zanzare mi mangiavano ma loro, le mondine erano bellissime.

Dopo un periodo in Inghilterra, tornai in Italia ma al sud. I miei non erano d’accordo, loro non avevano capito che l’Italia era l’unico posto in cui mi sentivo a casa. Anche i colleghi laziali mi accolsero benissimo. Ero affascinato dalle tradizioni e dalla cucina, dai paesaggi. Fu durante quell’estate che conobbi Loretta. Una ragazza bellissima. Faceva l’indossatrice a Roma. All’epoca fare quel lavoro era una rarità. Grazie a suo fratello, che mi diede il consenso, presi il coraggio di presentarmi a lei  durante una serata danzante e fu subito colpo di fulmine. Fu un’estate indimenticabile. Eravamo inseparabili. Un giorno Loretta mi disse “Mio padre ti vuole a pranzo da noi domenica”. Accettai senza immaginarne lontanamente il motivo.  La madre di Loretta per l’occasione aveva acconsentito all’uso della sala da pranzo. Normalmente i mobili erano coperti da teli. Una volta si usava avere la stanza delle grandi occasioni, accompagnata dal servizio buono e i bicchieri di cristallo.

Quella domenica, tutto era stato preparato con cura per accogliermi. Era tutto perfetto. Mi presentai puntualissimo con un mazzo di fiori. Iniziammo a mangiare e le portate non finivano mai. Ogni volta che la madre usciva dalla cucina con un vassoio in mano, diceva “Signor Franco, questo piatto lo ha cucinato Loretta”. Mi chiamavano Franco o signor Franco. Ormai anche il mio nome si era italianizzato. Alla fine di tutto il pranzo, del caffé, dei dolci, della frutta, mi ritrovai seduto a tavola da solo con il padre di Loretta. Mi offrì un sigaro. Accettai, anche se non ero proprio un fumatore. Mi guardò dritto negli occhi e mi disse “Sono mesi che esci con mia figlia. La gente parla. Parla. Vi vedono sempre insieme.” Io rimasi in silenzio “Franco ma tu quanto guadagni?” Io gli risposi sinceramente e lui mi disse “Mi sembra una buona paga e so che hai un buon lavoro. I presupposti per mettere su famiglia ci sono tutti. Mia figlia ha un buon lavoro. Vi volete bene. Io penso che sia giunto il momento di fidanzarsi ufficialmente.” Forse avevo l’aria impaurita perché mi chiese apertamente “Ma tu che intenzioni hai con mia figlia?”. Io avevo paura. Forse perché non mi aspettavo niente di simile. Forse perché ero giovane e pensavo alla mia famiglia, e al fatto che avrei dovuto comunicargli che mi sarei sposato con una ragazza italiana. Fui preso dal panico. Presi fiato. Guardai negli occhi il padre di Loretta e fu la mia paura a parlare: “Non penso sia il caso di fidanzarsi ufficialmente. Tra poche settimane ripartirò per il Giappone. Non so quanto mi fermerò. Non posso vincolare Loretta ad aspettare il mio ritorno. Non mi sento pronto e non è giusto neanche per lei.” Avevo pronunciato la mia condanna. Il padre di Loretta non si scompose. Appoggiò il sigaro e mi disse con voce gentile ma ferma: “Da oggi in poi non uscirai più con mia figlia. Se la incontri per strada, la potrai salutare con un cenno della mano. Ma niente oltre a questo. Una brava ragazza non può compromettersi con un ragazzo che non è intenzionato a sposarla. Sono stato chiaro?” Mi porse la sua mano e strinse la mia con un certo vigore. Io ero ammutolito. Mi usci un tremolante “Si, ho capito”. Quella domenica pomeriggio, uscito dalla casa di Loretta, camminavo con la sensazione di essermi condannato. Nelle settimane successive mi dedicai completamente al lavoro, fino alla chiamata in cui mi diedero le date di partenza per il Giappone.

Cinque anni dopo, per la gioia dei miei genitori, sposai un’imprenditrice tedesca. Io continuai a viaggiare per il mondo. Mia moglie non ha mai condiviso il mio interesse per le altre culture. In realtà non avevamo niente in comune, se non la nazionalità. Dopo la nascita della nostra unica figlia, abbiamo sempre vissuto da separati in casa. Ci riuniamo quando arrivano i nipoti, ma poi ognuno torna a vivere la propria vita. “Separati in casa è meglio di un divorzio” mi disse mia madre trent’anni fa e da allora viviamo così. La casa è grande e ognuno ha il suo appartamento. Ci incontriamo in giardino. Un giardino bellissimo sul lago di Stanberg.

A volte durante le sere d’estate, mentre guardo il tramonto ripenso a quell’estate in Italia. So che può sembrare stupido, ma mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se avessi scelto di sposare Loretta, la donna che amavo. Anni ad ascoltare pregiudizi sugli italiani, su quanto erano incivili. In realtà l’incivile ero io, che con superficialità stavo compromettendo la reputazione di Loretta, suo padre voleva solo proteggerla. In quegli anni era assolutamente normale. Dopo la pensione ho continuato a viaggiare per l’Italia. L’ho visitata in lungo e in largo. Forse la sto ancora cercando.

A volte penso a come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto il coraggio che non ho avuto. Il coraggio di andare contro il volere della mia famiglia. Il coraggio di scegliere senza condizionamenti.

I miei nipoti sono ormai grandi e sapendo che ho girato il mondo, mi chiedono spesso dei consigli di lavoro ma anche di sentimenti. Io da anni li spingo sempre nella stessa direzione “Siate coraggiosi! Amate! Viaggiate! Il mondo è bellissimo e la vita è troppo breve per perdere tempo e occasioni, facendosi condizionare da paure e pregiudizi. “

Franz, classe 1934

immagine del lago di Stanberg tratta da internet

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