Da inizio anno ho aderito ad un progetto scolastico di cui vi racconterò più avanti, e un pomeriggio mi sono ritrovata in una classe di quarta elementare di una scuola pubblica bavarese. Mi sono seduta tra i bambini e ho spiegato loro che saremmo stati insieme per un’oretta. La mia presenza li aveva incuriositi e anche un po’ preoccupati, così mi sono presentata e ho aggiunto “Non dobbiamo fare test. Non vi darò dei voti. Possiamo giocare insieme, per esempio con le costruzioni di legno. Che ne pensate?” e loro “JAAAA!!!!”. Così ci siamo seduti tutti in cerchio, abbiamo rovesciato un borsone di mattoncini per terra e giocando, abbiamo iniziato a chiaccherare del più e del meno. Quando tutti hanno finito di presentarsi con nome, età, gioco e colore preferito, una bambina ha cominciato a parlare senza prendere fiato. Onestamente non riuscivo a capire dove volesse andare a parare, ma poi ecco due paroline inaspettate: Corona Virus.
Gli altri bambini hanno confermato di avere anche loro paura di questo virus, e hanno iniziato a raccontare di morti e statistiche sentite ai telegiornali. Li ho subito fermati invitandoli a riflettere sul fatto che questa paura non li avrebbe aiutati in alcun modo, e che in realtà non ci sono situazioni drammatiche nella nostra zona, insomma Keine Sorge! Ho cercato di spostare il discorso sull’importanza di avere una buona igiene personale, di lavarsi sempre le mani, ma loro evidentemente avevano bisogno di tirare fuori dell’altro.
All’improvviso una bambina inizia a parlare male del popolo cinese e ancor peggio dei bambini cinesi che frequentano la scuola. Gli altri ridacchiano, se non addirittura rincalzano la dose. Alt! “Eh no bambini, questo non mi piace! Se in un paese ci sono problemi sanitari, questo non significa che ci abitino persone stupide o cattive. Lo sapete vero cos’è il razzismo?” e loro stupiti “Razzi cosa?” e io “Razzismo!” e loro in coro “Mai sentita questa parola! Ma cosa vuol dire?”.
“Mi state dicendo che non avete mai parlato del razzismo né a casa coi vostri genitori né con i vostri insegnanti?” e loro “No, mai!”. “Forse in questa scuola siete fortunati e non avete questo problema! Vi faccio un esempio. Quando un bambino non parla bene Tedesco perché arriva da lontano, magari decidete di non giocare con lui? O di considerarlo diverso o stupido? Vale lo stesso per quei bambini come i cinesi per esempio, che hanno la pelle di un colore diverso, vengono tenuti in disparte? Voi avete mai visto queste cose? Immagino di no, visto che non sapete cosa sia il razzismo” e loro con tono deciso: “Si certo che succedono queste cose!” ed iniziano ad elencarmi tutte le loro esperienze. Io li ho lasciati raccontare e alla fine ho chiesto: “E voi di queste cose con chi ne parlate di solito? Con i genitori? Con gli insegnanti?”. Si fermano. Mi guardano sempre più stupiti e “Se capita lo raccontiamo ai genitori, ma alle maestre mai. Loro devono insegnare non hanno tempo per queste cose. Loro insegnano.” E un bambino aggiunge “Io una volta ho raccontato a mia madre di un nostro compagno che parla male Tedesco e mi sembrava così strano perché ha la mia età. Ho pensato non fosse normale. Lei mi ha detto di non pensarci perché non è un mio problema.”
Intanto è arrivato il momento di accompagnarli in un’altra ala della scuola e li ho salutati dicendo “Tutti questi comportamenti hanno un nome, si chiamano razzismo. Sicuramente un giorno avrete modo di parlarne, magari nei prossimi anni, almeno spero!”. E sono andata via.
Andando verso il parcheggio sono passata davanti alle casette-container dei rifugiati e mi sono chiesta: Ma com’è possibile che una classe di bambini di quarta elementare, cioè dell’ultimo anno, pur ospitando DENTRO il perimetro della scuola intere famiglie di rifugiati, non abbiano mai affrontato l’argomento?
Nel 2015, quando arrivarono a Monaco quelle migliaia di siriani, io c’ero. Mi ricordo perfettamente con quanto calore furono accolti. Tutte le aziende bavaresi e i cittadini si diedero un gran da fare, dando davvero un esempio di straordinaria generosità ed empatia. E pur di dare un tetto e restituire la dignità a queste persone che scappavano dalla guerra, misero casette-container ovunque persino nei cortili delle scuole! Ora, forse sono io che ho una visione troppo ampia: Ma perché per esempio, non “sfruttare” questo evento drammatico così attuale, per RACCONTARE ai bambini l’ACCOGLIENZA, la diversità, la multiculturalità, e perché no, anche spiegare il razzismo, che è spesso una conseguenza degli eventi migratori. Tra l’altro, i tedeschi lo potrebbero spiegare stando dalla parte di chi ha accolto e, a costo zero, trasmetterebbero semplicemente un esempio POSITIVO.
La MIA impressione è che l’argomento Razzismo, era ed è tutt’oggi un vero e proprio tabù per la cultura tedesca. Quando chiedo a un genitore NON tedesco se nella scuola dei suoi figli ci sono problemi di razzismo, mi rispondono tranquillamente raccontandomi esperienze a volte positive e a volte negative. Quando chiedo a un genitore tedesco se nella scuola dei suoi figli ci sono problemi di razzismo, si irrigidiscono e sono realmente a disagio, come se avessi fatto una domanda inopportuna. Ma è davvero così inopportuno parlare di razzismo?
Passano gli anni, e ci sono aspetti di questa cultura che per me sono ancora molto difficili da comprendere. Ma sul serio.
Mio figlio ha sei anni, e già da un paio d’anni abbiamo iniziato a parlare di questi argomenti. Quando aveva quattro anni ha iniziato a farci domande tipo “Mamma quando diventeremo anche noi color cioccolata come i nostri amici? Crescendo la pelle scurisce?” oppure riferendosi alla sua maestra musulmana “Perché la maestra ha un asciugamano in testa? Ha sempre i capelli bagnati?”. Io e mio marito consideriamo queste domande come delle vere e proprie occasioni di crescita.
I bambini sono attenti osservatori del mondo, sono creature intelligenti. E non è pensabile che al giorno d’oggi un adulto, che è accanto a loro, non si ponga il problema di spiegare la multiculturalità. Soprattutto qui in Baviera, dove in ogni scuola si sfoggiano grandi crocifissi e si spinge molto sul concetto di beneficenza ai bambini lontani meno fortunati. Ogni anno si fanno grandi raccolte fondi e pacchi regalo da spedire ovunque nel mondo. Va benissimo, ma quando quei bambini sono seduti in mezzo a noi, sono improvvisamente meno importanti?
E poi, in tutte le scuole ci sono cartelli con scritto “Kinder sind unsere Zukunft” cioè i bambini sono il nostro futuro. Giusto! Sono d’accordo, ma sviluppare l’empatia non è un lavoro che dura un giorno e a mio avviso, PRIMA si comincia e MEGLIO è!
Alla prossima avventura!
Lara

Cara Lara, non posso che dire che leggere i tuoi articoli mi fa solo che piacere, sei una donna e una madre che nella sua quotidianità sente sempre una missione educativa e questo non può che farti onore. L’ omertà sembra essere un aspetto costante delle società moderne, purtroppo spesso il benessere non si accompagna ad un’educazione altrettanto felice, soprattutto se poco stimolata al senso critico. Io ti auguro di avere sempre più occasione di portare del buono ai giovani, io per il momento lo faccio soprattutto con gli adulti ma con i bambini…ha un peso incalcolabile il proprio comportamento.Un abbraccio!!!
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Grazie mille, mi hai letta dentro nel vero senso della parola. Un abbraccio speciale
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Sembra esserci una contraddizione di fondo tra i comportamenti aperti all’accoglienza (che siano più o meno spontanei oppure imposti da un comune senso del dovere) e queste “assenze”.
Ovviamente non può spiegare il fenomeno per intero, ma credi che il passato del ‘900, con lo shock che ha generato, possa entrarci?
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Assolutamente si! Appena si accenna l’argomento si sentono giudicati. Certe ferite guariranno tra mille anni…
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